Fofi e Barilli sul Dams: avere ragione per avere torto
Sono passati appena una decina di giorni dal botta e risposta tra Goffredo Fofi e Renato Barilli sulle pagine dell’Unità. Oggetto del contendere: il Dams (Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo), nato ormai 40 anni fa a Bologna.
Fofi lo ha attaccato, Barilli lo ha difeso. Hanno ragione entrambi. Hanno torto entrambi.
Per spiegarvelo vediamo prima quali carte hanno messo sul tavolo i due.
Goffredo Fofi, nel suo articolo del 17 ottobre, ha messo in campo un doppio capo d’accusa.
Innanzitutto ha sostenuto che “oggi i Dams sono una delle più attive fabbriche di disoccupati o precari. Insomma, dopo aver frequentato il Dams non si trova lavoro.
Ma la sua accusa più pesante è un'altra: i laureati del Dams sono “schiavi delle ultime mode, hanno gusti “barbarici” che non vanno oltre la superficie del vistoso e del finto-nuovo. Una sottocultura imbarazzante e deprimente, di cui ritengo sia responsabile un ceto pedagogico che ha semplicemente sostituito alle pedanteria dei vecchi professori di estetica una involuta ma “artistica” allegria cresciuta su se stessa, figlia di quei teorici dei Settanta che esaltavano il nuovo e si avvoltolavano fuori sincrono nelle proprie chiacchiere”.
Barilli ha replicato immediatamente il giorno dopo.
Alla prima accusa ha replicato seccamente: “È nata l’accusa che un tale corso fosse una fabbrica di disoccupati, ma le statistiche lo smentiscono, i disoccupati si trovano piuttosto tra i normali laureati in lettere, per i quali si danno solo i magri sbocchi dell’insegnamento medio, mentre il damsiani rispondono in parte allo scopo per cui sono stati concepiti, trovano posto, per esempio, nelle emittenti televisive, o in biblioteche e centri civici e uffici promozionali di mostre”.
All’accusa più pesante, quella di aver prodotto una “sottocultura imbarazzante e deprimente”, Barilli ha ben chiarito che “le ragioni di fondo che hanno ispirato questo corso sono validissime, e dovrebbero essere assunte dall’intero sistema scolastico nostrano, nei settori umanistici. Era il tentativo di correggere il tradizionale e pesante primato assegnato alle «lettere» di cui si fregiano ancor oggi le Facoltà dei nostri Atenei, accordando ben poco spazio alle forme espressive non-verbali, e appunto nella sigla di quel corso di laurea si manifestava una volontà di riscatto, "A" stava per arti visive, "M" per musica e "S" per spettacolo, poi subito articolato in teatro e cinema".
Ecco le posizioni dei due. Ora vediamo perché pur avendo ragione hanno torto entrambi.
Fofi sicuramente commette un autogoal quando per attaccare il Dams attacca la mancanza di opportunità lavorative che quel corso di studi offre. E sbaglia per due motivi. Innanzitutto perché Barilli ha gioco facile nel dimostrargli il contrario (e il confronto con i laureati in lettere non ammette repliche). E poi perché questa visione strettamente utilitaristica dello studio (è sbagliato perché non produce lavoro) mal si accorda con il suo successivo attacco alla cultura del trio Berlusconi-Bondi-Tremonti.
Il punto forte dell’articolo di Fofi (ed è di questo che vogliamo e dobbiamo parlare) sta invece nel suo infiammato attacco all’inconsistenza media del laureato al Dams. Fofi quando sostiene che la “pedanteria dei vecchi professori di estetica” è stata sostituita da “una involuta ma “artistica” allegria cresciuta su se stessa”, compie un’analisi corretta. Comprende - per dirla in termini avanguardistici - che alla pedanteria passatista si è sostituito il vuoto cazzeggio presentista. Peccato che poi non riesca nel passo successivo. Sbaglia infatti ancora quando con disprezzo accusa i laureati del Dams di “sottocultura”, riprendendo quel lessico reazionario tipico di un mondo per fortuna tramontato. Non comprende che proprio quell’essere “barbarici” – come acutamente nota – può costituire la miccia per far esplodere la paralisi intellettuale contemporanea. Fofi dà l’impressione di voler risolvere tutto ritornando indietro, mentre in realtà il passo compiuto dal Dams è corretto, anche se incompleto. Il perché inizia a spiegarlo Renato Barilli, ma purtroppo neppure lui arriva fino in fondo.
La grande innovazione del Dams è realmente quella di aver concesso spazio finalmente alle “forme espressive non-verbali”. Insomma, negli anni Settanta era finalmente arrivato il momento di concedere spazio al cinema, alla fotografia, alla musica, al teatro e allo spettacolo. La dittatura tipografica era finita. E il Dams in questo è stato fondamentale.
Ma cosa è rimasto incompiuto? Perché i laureati del Dams così spesso cedono alle mode presentiste, dando prova di mancanza di pieno senso critico?
È semplice. Perché molto spesso il Dams è diventato il rifugio degli studenti amanti delle Arti, ma nemici delle Lettere (sempre se vogliamo ancora usare questi termini). Il paradigma non-verbale non deve sostituire, ma deve affiancare quello verbale se vogliamo avere uomini multidimensionali. Se l’uomo tipografico ha dei limiti, non dobbiamo dimenticarne le qualità: capacità di analisi e di critica indubbiamente nascono e si sviluppano con l’esercizio della parola e soprattutto della scrittura. Ecco, troppo spesso al Dams questi aspetti non vengono sufficientemente curati (colpa di docenti limitati o di studenti che rifiutano certi studi? colpe da dividere, pensiamo). Il risultato è la produzione di uomini monodimensionali, proprio come quelli prodotti (per motivi opposti) dalla vecchia facoltà di Lettere (ma si potrebbe dire la stessa cosa delle facoltà scientifiche).
La vera grande critica non è quindi al Dams, ma al sistema universitario in generale. Il vero uomo multidimensionale, che sarà l’unico in grado di affrontare le sfide di questo secolo, dovrà essere un individuo dalla formazione per niente settoriale, per nulla precocemente specializzata. La specializzazione serve assolutamente, ma per avere pieno senso deve inserirsi in una visione globale del mondo.
In questo contesto anche le accuse di Fofi alle “malaugurate “scienze della comunicazione”, sorelle delle altrettanto discutibili “scienze della formazione” cadono. Conosciamo bene i frutti poverissimi delle scienze della comunicazione e delle scienze della formazione, ma il problema non è costituito da quelle discipline (che tanta importanza hanno invece nella comprensione dei problemi della contemporaneità). Il problema è costituito dal fatto che il laureato medio in scienze della comunicazione o della formazione ha una formazione (!) limitata, circoscritta, che non gli permette uno sguardo d’insieme sul mondo. E questo è il limite, l’enorme limite di queste e altre facoltà: formare individui monodimensionali, a cui sfugge perennemente la complessità della realtà.
Qui si dovrebbe registrare non il fallimento del Dams, ma il fallimento di tutto il modello formativo universitario esistente. Un modello rigidissimo, compartimentato, asfittico. Un modello che produce uomini monodimensionali. E l’individuo monodimensionale è lì che è parte dell’ingranaggio. Schiavo del sistema, non ne comprende il funzionamento. Crede di capire anche qualcosa nel settore di sua competenza, ma non si accorge che sta agendo solo su un piccolo ingranaggio, non sul meccanismo che regola l’intero sistema. Se avesse visione multidimensionale, cercherebbe ad esempio di mettere in crisi il sistema contemporaneo. Farebbe in questo modo avanguardia
Occorre radicalmente smettere di parlare di arte e cultura in termini fumosi e per giunta autoreferenziali. L’Arte e la Cultura non esistono. E quindi non può esistere una sotto-arte e sotto-cultura.
Ci si preoccupi della formazione multidimensionale dell’individuo contemporaneo, e non della difesa di una determinata cultura in cui ci si vuole a tutti i costi riconoscere. Non serve un ritorno ai tempi che furono, ma una comprensione piena dei tempi che sono. Non occorre la restaurazione, ma una nuova avanguardia.
Antonio Saccoccio
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